La storia della Bufala in Italia

Le origini della Bufala in Italia

Era dai tempi dell’ultima glaciazione, oltre 10.000 anni fa, che la bufala non metteva zampa in Europa e nell’Africa del Nord. Per ragioni climatiche, il suo habitat venne confinato prima all’India poi alla Mesopotamia.

Come e quando esattamente giunse in Italia, è difficile stabilirlo. Certo è che alla fine dell’800 gli Arabi l’avevano già portata dalla Siria all’Egitto e che successivamente decisero di allevarla anche in Sicilia, poiché l’isola, all’epoca, era percorsa da numerosi piccoli fiumi. La bufala, come dimostra la documentazione ritrovata, fu utilizzata inizialmente dai Saraceni come animale da lavoro nelle aree acquitrinose e solo successivamente il suo latte fu trasformato con la tecnica della pasta filata, utilizzata nel meridione per il latte di vacca.

L’impulso dei Borbone

Per secoli l’allevamento della bufala fu sinonimo di aree paludose e malsane. La Mozzarella di Bufala restò così confinata alle zone di produzione e ai mercati di Napoli e Salerno.

Bisognerà attendere Carlo di Borbone e suo figlio Ferdinando, che aveva intuito le potenzialità del latte di bufala, per una svolta epocale.

Ferdinando IV di Borbone, con lungimiranza, realizzò nel ‘700 il primo caseificio sperimentale della storia, con annesso allevamento, nella tenuta di Carditello. Un altro caseificio con allevamento, di dimensioni inferiori, fu realizzato nella reggia di Capodimonte, al fine di dimostrare che nelle aree collinari di Napoli era possibile fornire latte fresco alla popolazione.

Ferdinando fece costruire nella reggia anche un forno per far assaggiare la pizza alla moglie Carolina durante un ricevimento. L’episodio è narrato da Salvatore Di Giacomo, che raccolse la testimonianza del pizzaiolo Domenico Testa, che divenne monzù, sorta di chef della cucina napoletana e siciliana per nomina regale. Questo dimostra che oltre un secolo prima dell’avvento dell’Unità d’Italia, in Campania si produceva già quella pizza cui fu dato il nome di “margherita” in onore della regina di casa Savoia.

L’operato avanguardistico dei Borbone diede un notevole impulso alla zootecnia in Campania.

 

La Reggia di Carditello

Carmine Sadeo riferisce che a Carditello, tenuta nata per ospitare la collezione Farnese ma diventata simbolo dell’industria casearia campana, fu realizzata la “Reale industria della pagliata delle bufale”: “Qui si fanno dei latticini squisiti, e tra questi dei butiri così eccellenti, che non possono idearsi i migliori, la di loro bontà è inarrivabile, e il loro sapore gustoso a segno di lasciarne sempre vivo il desiderio. Oltre a ciò sono così delicati e salubri, che in atto che se ne gusta la grassezza, non si viene nauseato per quantità. Questi latticini devono il loro cominciamento a Re Carlo, che introdusse la prima volta il formaggio in Capodimonte” ( Notizie del bello e dell’antico - Le ville Reali, Celano, 1792).

A Carditello fu realizzato anche un allevamento di circa 200 vacche provenienti dalle Alpi Elvetie, verosimilmente Brune alpine (anche se la zootecnia ufficiale informa che esse furono introdotte in Italia nel 1850). Carditello anticipò la modernizzazione del patrimonio zootecnico europeo di circa 100 anni, ispirando anche i presepisti dell’epoca, che inseriscono vacche brune e bufale nelle loro opere d’arte. Per la migliore operatività dell’azienda furono chiamate maestranze da Lodi e da Parma e fu impiantato un caseificio per la produzione di burro, formaggi locali e parmigiano.

 

Il real sito di Capodimonte

A Napoli, dove nessuno ipotizzava attività zootecniche avanzate, Ferdinando IV stupì ancora. Nel Real sito di Capodimonte si trovava una “vaccheria Reale” che produceva i latticini di bufala e di vacca. L’esempio di Capodimonte produsse speranza e fervore in tutti i casali limitrofi: Ancarano, Piscinola, Camaldoli ed altri iniziarono ad allevare bufale, vacche e capre, allo scopo di offrire alla popolazione dell’allora capitale un servizio per i tempi unico in Europa di distribuzione giornaliera di latte fresco.

Nel breve ragguaglio dell’agricoltura e della pastorizia nel Regno di Napoli, 1845 si legge: “Gli animali sono tenuti ed alimentati in stalle, si pascolano ogni giorno nelle circostanze di Napoli, e massime sopra i Camaldoli ed in luoghi ove ci ha selve o luogo incolto. Dopo tramontato del sole si riconducono in Napoli, e quivi si dividono in molte branche, delle quali prendendo ciascuna diverse strade, percorrono i diversi quartieri della capitale, e col suono di campana danno segno a coloro che hanno bisogno di latte. Di grandissimo utile agli abitanti di Napoli, i quali ricevono latte fresco premuto in loro presenza, e non adulterato o guasto. Questa industria è tutta particolare del nostro paese, non essendovi in altra parte d’Europa”. Al Sud era già chiaro il quadro delle varie zone di produzione. Sin dal Medioevo, erano note:

  • La mozzarella “dei Mazzoni”, la mozzarella di Aversa, Mondragone, Carditello e l’area di produzione di Caserta e Napoli e del basso Lazio.
  • La mozzarella della piana del Sele (Paestum, Eboli e Battipaglia, che nel passato arrivava a Napoli via mare), la cui era di produzione giungeva fino a Foggia (due volte alla settimana arrivavano provole alla corte angioina dalla tenuta di Santa Felicita).

Si legge nelle riviste dell’epoca: “I butiri di questi luoghi sono superiori a quelli di Lombardia. Fra i formaggi il caciocavallo è il più stimato, ignote al resto d’Italia sono le provole di bufala, le ricotte forti o schiante, le mozzarelle, i raschi, le scamorze”.

Nel resto d’Italia, però, l’ignoranza sui prodotti di bufala era tale da far affermare a Giuseppe Gorani, (conte e scrittore Milanese, 1740 – 1819) che il caciocavallo, dato il nome, fosse fatto di latte di cavalla: “Il Gorani (alle favole del suo viaggio alle corti meridionali, associa errori ridicoli. Ei dice che tal formaggio si fa dal latte di cavalla” (Itinerario delle Due Sicilie, G. Quattromani, 1827 Napoli).

 

L’età d’oro della Bufala in Italia

Fino all’Unità d’Italia, l’allevamento e la produzione di prodotti bufalini nel meridione d’Italia fu in continua espansione. Si trattò di uno dei primi, brillanti, esempi di industria casearia “a filiera corta” d’Europa: un percorso pienamente in linea con i progetti d’industrializzazione illuministici.

Fu così che grazie all’esempio di Carditello in epoca murattiana si contavano nel casertano ben 7800 capi bufalini. I capi si ridussero a 2.422 nel 1868 a causa della damnatio memoriae portata avanti dai Savoia, per poi risalire, nel 1881, a 11.070 capi.

Nelle aree della Campania caratterizzate dal clima caldo-umido delle zone paludose, dove le essenze pascolative erano grossolane e tipiche dei terreni acquitrinosi, la bufala era una risorsa: mentre le altre specie di allevamento si ammalavano, perché più sensibili agli ecto ed endoparassiti, la bufala prosperava.

La bufala svolgeva una funzione socio-economica importante, perché sottraeva all’incuria vaste aree divenute paludose per effetto del bradisismo. Le bufale erano insostituibili per la pulizia dei canali di sgrondo delle zone paludose e dei letti fluviali. Grazie al loro duro lavoro, migliaia di persone scamparono alle tragiche conseguenze delle alluvioni che oggi conosciamo. In un documento del salernitano si legge: “Il Comune di Sarno fittava ogni tre anni una mandria di bufale per la cosiddetta mena delle bufale per i regi lagni che erano deputate a facilitare lo sgrondo non solo delle acque ma anche del fango che scendeva dalla montagna”.

Ma le bufale erano anche preziosi ausili alla pesca fluviale nella pianura Pontina e a quella sottocosta nel Salernitano. Dalle riviste dell’epoca si legge: “Incedono nuotando dove l’acqua è alta e camminando dove è bassa di guisa che le erbe fluviali e le alghe vengono completamente estirpate con l’avvilupparsi strettamente ai loro arti. Per tutto ciò non occorre che gli animali vengano domati giacché un tal genere di lavoro è nella loro natura e lo fanno assai volentieri…dopo 24-30 ore dal passaggio delle bufale nei canali il livello delle acque abbassa e i fiumi non straripano”.

 

Dopo l’Unità d’Italia

Dal 1861 al 1871, fu il tracollo. Come accadde a tutti gli stabilimenti industriali meridionali, molte pagliare vennero dismesse, Carditello fu abbandonata e la produzione della mozzarella di bufala si fermò. Nonostante questi eventi, all’inizio del 900 nella sola Campania si contavano nuovamente 20.000 capi bufalini.

In epoca fascista si ridussero in seguito alle bonifiche effettuate per favorire la “campagna del grano”, che contrasse anche le aree destinate ai tratturi: nel 1930 furono censite 15.016 bufale (11.365 in Campania, 1750 nel Lazio, 1591 nelle Puglie, e 221 in Lucania, L’Italia agricola, volume 85, pag 401, 1948).

Tra il 27 e il 30 settembre 1943, durante le famose “Quattro giornate di Napoli”, fu liberata da parte del popolo la prima città italiana dal giogo nazifascista e le bufale a Nord di Napoli furono requisite dai tedeschi; successivamente il patrimonio fu ricostituito con capi delle province di Salerno e di Foggia.

L’Italia allevava nel 1961 il 5% del patrimonio bufalino europeo mentre attualmente ne detiene il 95%, concentrato quasi interamente in Campania. Oggi la Bufala di Razza Mediterranea Italiana è unanimemente considerata un animale straordinario, alla base del successo nel mondo della Mozzarella di Bufala Campana Dop.

BUFALARA DELL'AZIENDA IMPROSTA EBOLI (SA)

di Luigi Zicarelli 
Già professore ordinario di Zootecnia
Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni animali
Università Federico II di Napoli