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PERCHÉ SI DICE BUFALA? (E NON È AFFATTO UNA BUFALA)

Era il 1959 e a Canzonissima Nino Manfredi lanciava il tormentone Fusse che fusse la vorta bbona, con il suo Bastiano, il barista di Ceccano.

Ecco, proprio dalla simpatica macchietta dell’indimenticato Giacinto di Brutti sporchi e cattivi, partiamo per ragionare sul termine «bufala» e sull’accezione moderna che si discosta totalmente dall’animale ma che dall’animale prende le mosse.

Dicevamo di Manfredi; secondo i professori D’Achille e Viviani, autori del saggio «Sui neologismi. Memoria del parlante e diacronia del presente» (Studi di lessicografia italiana, XI, 1991), fu proprio l’attore romano ad utilizzare il termine «bufala» per indicare una contraffazione, una truffa. Concetto ribadito anche in Lasciatece parlà. Il romanesco nell’Italia di oggi (Roma, 2012):

Poiché la mozzarella di bufala è a Roma particolarmente apprezzata, la metafora deve fare riferimento non a questo formaggio, ma al malcostume, messo evidentemente in opera da qualche ristoratore romano disonesto, di spacciare la carne di bufala per la più pregiata vitella.

Un’ipotesi che fa capolino anche tra le righe del nostro Ti racconto una bufala, il volume, voluto dal Consorzio di tutela della mozzarella di bufala DOP e che raccoglie i racconti brevi dedicati proprio alla mozzarella di bufala campana DOP, nel racconto dal titolo «L’oro bianco e il corvo nero», di Daniela Cavallini.

Tullio De Mauro, nel Grande dizionario italiano dell’uso data al 1960 la prima attestazione del termine dando come spiegazione «boiata, porcheria, cosa noiosa, fregatura».

Riccardo Cimaglia, nella nota per il sito dell’Accademia della Crusca («Questa risposta non è una bufala», 2017) scrive:

L’accezione figurata di bufala, sia come ‘notizia falsa’ sia come ‘produzione artistica di scarso valore’, è relativamente recente e ha sicuramente origine a Roma, anche se è stata registrata solo tardivamente nella lessicografia romanesca. La V edizione del Vocabolario della Crusca (vol. II, 1866) riporta invece la locuzione menare altrui pel naso come un bufalo/una bufala, nel senso di ‘raggirare qualcuno’. Ma ora, anche grazie alla rete, da cui vengono diffuse notizie e informazioni che si rivelano poi solo delle... bufale, la parola è d'uso comune sull'intero territorio nazionale.

Anche Alberto Ritieni, nella nota pubblicata sul notiziario dei Gergofili («Bufale o Fake News: un nemico sempre più forte per la Scienza», scrive:

C’è chi fa risalire il termine al dialetto romano dove indica la ‘sòla’ ovvero una sorta di frode, ma c’è chi invece fa riferimento al concetto di “popolo bue”, facile da guidare con l’anello al naso e quindi una «bufala» è tale perché indirizza chi legge in modo passivo verso un qualsiasi obiettivo sbagliato o meno che sia.

E sembra essere questa la tesi che abbraccia anche il linguista e critico letterario Massimo Arcangeli («Perché si dice bufala?», Il Post, 2017):

L’origine di bufala va invece ricondotta a quel semplice prendere per il naso che ripete, sul piano figurato, l’azione compiuta nel trainare l’animale: il quale, con l’anello al naso, si lascia guidare docile, senza opporre resistenza. Come la massa influenzabile e ottusa che si fa portare in giro nell’immagine del popolo bue, un’espressione già ottocentesca usata, fra gli altri, da due politici e letterati: Angelo Brofferio e Francesco Domenico Guerrazzi; si procede nell’identica direzione con l’uso traslato di bue (o dello stesso bufalo; bufolo: Machiavelli; buffolo: Aretino; ecc.), per dire di qualcuno che è stupido, sprovveduto o ignorante, finito in molte frasi idiomatiche ed espressioni proverbiali di ieri e di oggi.

 


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